Leonardo

Fascicolo 7


Arte e Democrazia
di Alastor (Emilio Bodrero)
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Uomini in voi glorificate l'Uomo!
D'ANNUNZIO

Io credo che nessuna epoca presenti più accentuato che non la nostra il fenomeno della consapevolezza. Ogni manifestazione di pensiero rivela sempre un minuto processo di autocritica, di analisi preventiva dell'elemento formale, di comparazione della verosimiglianza con la verità. Così che oggi anziché subirle, le influenze si cercano, si vogliono, si dicono, e ne consegue una deplorevole lucidezza, nel sentimento della genesi dell'espressione, per la quale ci sembra meraviglioso ogni estetico slancio istintivo.
   Nulla più di questo conduce a perdere il più sano concetto della personalità, poichè lo impulso vivo e scintillante dell'inspirazione è necessariamente sottoposto ad una considerazione di opportunità la quale non può non togliergli il vigore nativo. Oggi il poeta non sente di dover parlare a nome della sua stirpe, del suo tempo, di sè stesso, ma addirittura vuole che la sua poesia contenga tutto ciò, e la sintesi forzata lo costringe ad attenuare l'elemento soggettivo dell'arte sua e, per così dire, a velare la sincerità e la spontaneità della sua musica.
   Rimanere sè stessi, pur concedendo le parole a l'ideale del proprio tempo, e salire a l'universalità della visione, dovrebbe essere l'aspirazione effettiva dell'arte. L'originalità, l'eternità quindi, e la conformità dell'opera al gusto perenne, ne conseguirebbero spontaneamente. Mostrare, imporre quasi, il sogno più grande, dovrebbe essere il compito dell'artista, ma costui dovrebbe in sè stesso cercare il suo sogno, nelle interiori armonie destate nell'anima dal fremito della vita.
   Dobbiamo purtroppo constatarlo; oggi chi detta ogni legge è la massa. Non la plebe: la plebe ha una forma estetica, ha un gesto e un linguaggio, ha un'anima ed un carattere. Ma la massa è amorfa, la massa è brutale ed inintelligente, soffoca ed uniforma, sopprime l'individuo e deturpa la specie, elude il contrasto e sfugge a qualunque determinazione. Può essa ed in qual modo ed entro quali limiti, divenire materia, fonte o spunto di un'inspirazione estetica; può essa dare a un poeta uno di quegli argomenti a cui si attacca il sentimento, a cui si vincola il pensiero, per cui l'anima si esalta?
   Il diverso grado di consapevolezza dell'artista può, a mio credere, dare gli estremi di una letteratura, in questo senso, democratica. E, ricorrendo a la terminologia dell'antica critica, io, penso che un'idealità artistica la quale si appoggi a la considerazione della massa sociale, non possa dar luogo che ad un'emanazione di sentimentalità troppo poveramente soggettiva o pure ad un'affermazione sovrana di superiorità intellettuale, a seconda della quantità e delle qualità di sè stesso che l'artista dia a l'espressione della visione sociale. Per modo che, da un punto di vista letterario, non potranno aversi che forme di pietà o di aspirazione ad una ideale presunta giustizia inconseguibile, o pure interpretazioni solenni e personali di contrasti e d'impressioni. Infine, io non riesco a concepire una letteratura democratica, se non come dolente o superba: non posso immaginarla logica.
   Anche la letteratura adunque, ha dovuto oggi democratizzarsi, o per meglio dire, i letterati hanno voluto subire l'influsso della morale servile. Molti scrittori hanno creduto di dover scrivere del popolo e per il popolo ed in questa coazione non hanno potuto dare a l'argomento se non quanto la loro attitudine e non l'anima loro poteva concedere. E dell'effetto che su l'atteggiamento e l'indirizzo di un'arte può produrre il problema sociale più modernamente inteso, di questa triplice conseguenza che deriva dal contatto dell'anima di un artista con la massa popolare, tre recenti letture mi hanno dato il segno più evidente.

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   La prima. Un opuscolo di cento pagine, non una di più non una di meno, appartenente a una serie di altri opuscoli di cento pagine (dico cento) non una di più non una di meno. Così vuole l'eguaglianza diremo così libraria: ogni cittadino, ogni compno, ogni essere scrivente, dispone in questa raccolta di ben cento pagine. Guai se ne dettasse una di più: l'equilibrio sociale andrebbe a farsi benedire! E un bel passo verso la dilettevolissima e quanto mai estetica eguaglianza. Una copertina di un bel rosso acceso, cinquanta centesimi, titolo: Opinions sociales, autore...
   Ho provato la stessa penosa impressione che mi avrebbe dato un'azione indelicata commessa a mio danno dal più fraternamente caro dei miei Anatole France, lo scettico superiore, il prosatore squisito, l'autore di Thaìs, il più bel libro della letteratura francese moderna, il signorile, finissime dispregiatore di ogni convinzione, il poeta della indulgenza sorridente, il filosofo della serenità bonaria, l'erudito geniale e da le amplissime vedute, colui che era riuscito a dimostrare come possa farsi dell'arte vera con la filosofia, con la filologia, con la critica, Anatole France smentiva così le manifestazioni veramente gloriose della sua figura di pensatore altissimo! E nel fascicolo non ho trovato che alcuni estratti da i suoi più recenti romanzi, alcune composizioni d'occasione e vari brevi discorsi da comizio, nei quali un solo pensiero stentato si diluisce e si ripete. Dunque, pensai, non udrò più i cari discorsi dell'abate Coignard, non sentirò più fremere il desiderio pano nell'ascetismo di Pafnuzio, non vedrò più l'onesto riso di Silvestro Bonnard, non avrò più i paradossi iridescenti di Choulette, non salirò più a le meravigliose sintesi storiche a cui mi fece ascendere Clio.... dunque Anatole France ha abdicato da la sua personalità?
   C'era da aspettarselo, si dice in genere riepilogando le novissime mutazioni di contegno del più fraternamente caro degli amici che ha commesso un'azione indelicata, e così ho dovuto dirmi anch'io a pena vidi l'opuscolo: Bergeret era l'antesignano della decadenza. Poichè questa manifestazione di un'opinione cosi risoluta e così inattesa in un artista che sembrava ponesse la gloria dell'arte sua nel tenersi lontano da ogni debolezza di partito, questa rivelazione di un demagogo comune in uno scrittore solitario e direi quasi misterioso che pareva incapace di uno slancio ardito verso un ideale pratico, circonfuso, come sembrava, da la sua scettica spiritualità, questo accecamento in un pensatore che aveva portato una lucidezza da sofista greco nel convincersi e nel cercar di convincere gli altri che un agnosticismo rassegnato costituiva il più sano germe di felicità interiore, tutto ciò non è che decadenza.
   Il malaugurato affaire ha rapito tre grandi anime a la serenità dell'espressione tradizionale della loro figura artistica: Francesco Coppée, rammollito nei bigottismi e nei misticismi fumosi e malcerti della reazione, Emilio Zola non tanto artista quanto scrittore e grande scrittore di constatazione, divenuto ora noioso, pesante, inverosimile e, per non parlare di Paolo Bourget a cui i posteri vorranno perdonare L'étape, prodotto genuino e opprimente ma secondario dell'attimo politico, Anatole France perduto per sempre, io temo, al desiderio di coloro che tanto si compiacquero del suo sorriso semplice e significativo. E tutto ciò non è che il portato della sopraffazione democratica. Quasi invidiosi della tranquillità ín cui lo poneva la sua filosofia, tutti coloro che si affannavano a difendere con la mala fede, con la violenza, con l'ingenuità, con l'ignoranza e anche con l'ingegno e con la cultura un corpo di convinzioni, sembra lo abbiano circuito, come un essere mostruoso, chiedendogli a gran voce di avere una opinione, di dirla, di proclamarla, imponendoglielo quasi come un dovere, a quel modo che la costituzione di Solone esigeva dal cittadino Ateniese.
   E Anatole France ha parlato, così hanno voluto, e ne è nata una contradizione. Poichè il sereno artista di ieri è dimenticato nel mediocre propandista di oggi. Ora io non solo perdono a le contradizioni degli spiriti superiori, ma le ammiro, purché non snaturino il fine ed il ministero dell'individuo da cui emanano: Gabriele D'Annunzio che vilipende quasi il soldataccio di ventura e che pochi anni dopo scrive la Canzone di Garibaldi, è l'artefice eletto che non cerca l'inspirazione ma se ne lascia trascinare e quasi sacrifica per via le meschinità della logica, per mirare soltanto al suo ideale di bellezza, e lo ammiro tanto più, quando non tenta nè meno di giustificare il mutato proposito, dí coordinarne le parti, di renderlo coerente a le pretese di chi ragiona su gli scrupoli e su i rispetti umani. Ma nella violenta crisi interiore per cui Anatole France deve esser passato per subire la trasforrnazione che io lamento, egli deve aver sentito che, per divenire ciò che doveva divenire, non poteva più rimanere sè stesso: logicamente, dando ad un'ideale democratico e sentimento, e pensiero e anima, l'arte sua doveva scomparire, poichè gli strumenti d'espressione di cui sin allora si era servito non potevano più corrispondere a le nuove necessita, dal momento che era assurdo immaginare un abate Coignard socialista, o una nuova serie di Clio lumeggiata da le dottrine del materialismo storico. Ed ha dovuto quindi rinunciare ai diritti della sua personalità d'artista, abbandonando la libertà d'inspirazione che solo può determinare la logica di una letteratura, e cadendo in una contradizione insostenibile, perché tocca il fondamento stesso della sua individualità. Un Anatole France convinto, retorico, esaltato, non era più Anatole France, e questa concessione ad un'imposizione della massa che, se era secondata in lui dal suo sentimento, non poteva però giustificarsi nel suo passato di pensatore, ha esaurito d'un tratto le fonti dell'arte sua. E nelle Opinions sociales qualche eco lontana della simpatica armonia di questo carissimo tra i grandi contemporanei, mi ha fatto sinceramente e dolorosamente rimpiangere il trasporto vivo e spontaneo che una volta m'avvicinava a la sua personalità.

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   Un altro volume, anche questo di un autore caro a coloro che chiedono a la lettura un pensiero indipendente e originale, un fantasma nuovo e luminoso. Sono quattro novelle di Oscar Wilde, riunite sotto il titolo: La Maison des Grenades. Anche qui, sembra che il grande scrittore inglese abbia voluto accentuare l'esposizione del contrasto sociale ed in diversi modi, a traverso l'anima sua, mostrare l'anima popolare. Meglio che novelle potrebbero dirsi fiabe, poiché il loro contenuto fantastico e infantile le pone più tosto nella categoria delle composizioni di pura immaginazione, mentre d'altronde i simboli profondi ed eletti che racchiudono, potrebbero ascriverle a forma di letteratura più complessa.


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   Sembra che in queste fiabe Oscar Wilde abbia voluto additare a tutti una mirabile fusione di un ideale di bontà con un ideale di bellezza. Poichè mentre da un lato l'autore ha posto in tutte un contrasto tra gli umili e i potenti, mentre ha trovato soavissime parole di pietà per la miseria umana, mentre ha fatto intravedere l'irraggiungibilità pratica di un bel sogno di giustizia e d'amore, pur dimostrandolo logicamente e sentimentalmente concepibile, ha poi lasciato che la ricchezza della sua fantasia adornasse il suo dire dei colori più grati, delle finzioni più aggraziate, delle pitture più forti.
   Oscar Wilde fu un esteta nel senso più universale di questa parola e tutta l'opera sua non dimostrò che l'aspirazione incessante verso la bellezza cosmica, verso l'ordine logico della bellezza, verso tutte le forme e tutti gli spiriti della bellezza. Per lui la bellezza fu fantasia, fu ideale, fu religione, ed anzichè intenderla come reazione a gli urti della verità inesorabile, volle profonderla in ogni manifestazione vitale, Paradossale anch'egli, e forse, se è possibile, più di quanto non lo sia stato Anatole France, si compiacque immensamente di involgere ognuno dei problemi dell'esistenza nelle più vaghe formule dell'assurdità, giungendo ad un altro scetticismo che toccando il perno di ogni convinzione, lasciava però intatti, nella libera arditezza del loro svolgimento, i supremi diritti della bellissima forma.
   Anche la bontà aveva la sua bellezza, e la giustizia sociale, comunque intesa, era una sintesi di bontà. E Oscar Wilde ha secondato questo movimento modernissimo che si riassume nella pietà collettiva e non dando sè stesso a i canoni della morale democratica, ma una parte degli ideali di questa facendo suoi per quel tanto che ne consentiva il suo temperamento di artista, ha velato di graziose e fantastiche allegorie il suo ideale di bontà, solo in quanto poteva coincidere con quello della democrazia. Ma non ha abdicato in nulla, a la sua personalità, per quanto il genere della sua poesia sembri talvolta trovarsi a disagio nell'espressione di concetti di morale sociale.
   In tutto il libro è profusa una ricchezza orientale di fantasia, che contrasta in modo strano con il lato umanitario degli intenti delle fiabe, tanto che si comprende come questo motivo comune a tutte dell'uguaglianza sociale sia stato scelto dal poeta più come espediente artistico che come segno di un convincimento d'inevitabile espressione. Sono constatazioni delle differenze che il denaro ha posto tra gli uomini e aspirazioni supreme verso una indefinita felicità universale, sono rimpianti sentimentali per una impossibilità effettiva al realizzarsi di un sogno di giustizia e visioni a pena accennate di una pacificazione morale, ma i diritti dell'arte e della bellezza non ne subiscono la minima diminuzione, per quanto l'argomento resti talvolta sproporzionato a la potenzialità espressiva dell'autore.
   Forse, abbattuto da le sventure e disgustato da le amarezze che la vita gli aveva apprestato, forse, sentendosi spostato in un mondo che aveva il dovere di non comprenderlo, per quanti sforzi egli facesse per piegarlo a le audacie inusate della sua consuetudine intellettuale, forse indebolito al punto da lasciarsi dominare da le voci della massa discordante da lui, anzichè continuare a tentare di soggiogarla, Oscar Wilde forzò la sua penna al nuovo cimento, ma non chinò il capo pensoso innanzi a la nuova esigenza. Se chi legge non ritrova in questo libro il sottile analizzatore della più fina aristocrazia dell'intelletto, lo sprezzante derisore di ogni volgarità e di ogni debolezza, lo spirito bizzarro e originale che sacrifica magari la verità a l'armonia di una frase, a la libertà di un pensiero, a l'arditezza di un paradosso, vi rinviene però sempre il fervido ammiratore di ogni bellezza, il mirabile pittore della natura, il sognatore entusiasta della più estetica ed intelligente libertà.

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   Un giorno, a la Camera Italiana, due violenze egualmente brutali ed egualmente cieche, si trovarono improvvisamente di fronte. Era da un lato un ministro inetto e inconsapevole che in nome di chi sa quali principii, si ostinava a difendere non, come ne avrebbe il dovere l'uomo di stato, la necessità delle più sane e meglio intese gerarchie, ma la ragione di una forza il cui criterio risiedeva nella meno logica e nella più inconciente organizzazione di un popolo, un ministro che, come pur troppo la schiacciante maggioranza degl'Italiani, non vedeva l'ordine sociale raggiunto che a traverso l'applicazione sempre più generalizzata delle formule e dei sistemi della burocrazia. Sorgevano innanzi a lui da l'altro lato i rappresentanti della violenza collettiva, coloro che, mostrando di aspirare al conseguimento dell'eguaglianza, credono di parlare in nome della libertà, senza accorgersi di propugnare la più spaventosa tra le tirannidi: quella del numero. Politicamente e intellettualmente, da un lato e dall'altro si lottava contro la natura e contro l'intelligenza.
   Un grande poeta che, allora deputato, aveva seduto sino a quel giorno tra coloro che gli sembrava dovessero, per il genere delle convinzioni, accostarsi dí più all'indole dell'arte sua, gettato un rapido sguardo nel campo della lotta, intuì che le due forze erano egualmente possenti ed egualmente volgari, ma comprese pure che da coloro che parlavano in nome di quella che sosteneva la servitù meno degna, non un bel gesto avrebbe mai potuto partirsi, non un criterio di sana partizione delle attività, non un rivolgimento inspirato al genio della stirpe ed a le esigenze del pensiero, mentre dal raggiungimento di quella che gli altri chiamavano libertà sarebbe forse scintillato qualche nuovo motivo di bellezza e sarebbe forse derivata una nuova selezione degli uomini, fondata sul valore effettivo delle energie e delle azioni. Il poeta da un lato vide mostruosamente travisato un ideale già vecchio, da l'altro sentì la speranza di un ideale nuovo ed a questo con un ardimento subitaneo e meraviglioso che scosse la torpida fiducia dei sacerdoti della coerenza, consacrò d'un tratto la sua convinzione.
   Gabriele D'Annunzio, il poeta della nostra generazione, come dal romanzo al poema epico, da la novella a la lirica, da l'eloquenza a la tragedia, ha richiesto a le proprie attitudini tutto ciò che la sua volontà insaziata di armonie, imponeva a l'anima sua, sempre tesa nello sforzo verso la perfezione, cosi sembra che abbia sentito il bisogno di rinnovarsi continuamente nel bagno della vita, di vivere tutte le esistenze, come per impadronirsi di tutti i lati dell'orizzonte concesso a la sua facoltà di espressione. Non sono trasformazioni di sè quelle a cui ci ha fatto assistere, ma ascensioni sempre più meditate verso il complemento armonico della sua personalità. Non so chi ha detto che il mutare un'opinione riguardo ad alcuno è sempre doloroso, che costa uno sforzo non lieve. Ora io di questo sforzo che la logica somiglianza di pensiero, l'ammirazione del gesto e la fiducia nell'esito mi resero facile, mi sentirei esuberantemente compensato se il nuovo indirizzo che il poeta ha preso non avesse prodotto se non quel Canto di festa per Calendimaggio, che dell'atteggiamento politico del suo autore fu la prima più perfetta emanazione, e che è di tutta la sua opera artistica una tra le più complesse, profonde e forti concezioni.
   Poiché in questa lirica si dimostra, a mio vedere più che nelle altre, la resistenza mirabile dell'elemento personale nelle manifestazioni artistiche di Gabriele D'Annunzio. Questo scrittore che ha subito tutte le influenze, dà quella degli studi scolastici nel Primo Vere, a quella delle letterature nordiche nel Giovanni Episcopo, da quella dei decadenti nel Poema Paradisiaco, a quella dei Greci nel suo teatro, da quella dei romanzieri Francesi nel Piàccre a quella degli antichi poeti Italiani nell'Isaotta Guttadauro, questo autore ha però saputo rimanere sempre a sè stesso e far sue, poderosamente sue, le influenze a cui sembrava assoggettarsi. E non altrimenti gli è accaduto quando ha orientato il suo pensiero verso un ideale democratico poichè, come il Canto di Calendimaggio ne dà una prova solenne, ha saputo trattare il nuovo soggetto nè più nè meno che come un nuovo strumento d'arte che gli si offriva e imporgli quasi l'impronta sua. Egli scrive il canto del lavoro, ma non si mescola a coloro per cui scrive, ma non guarda a la realtà con i loro occhi, ma non profana l'arte sua, annullandosi per secondare un'imposizione egalitaria. Solo un entusiasmo lo trascina a dire del popolo e del lavoro, ed è quello stesso che gli farebbe glorificare una tirannide: la ricerca di una bellezza sovrana, quasi per la tentazione della sua sensibilità squisita.
   Così che negli operai festeggianti il primo Maggio, il poeta ci ha fatto vedere ciò che i nostri occhi non avevano guardato, ci ha fatto pensare ciò che le nostre menti non avevano immaginato. Egli ha quasi forgiato questa nuova materia a le intenzioni dell'arte sua e, rispecchiato in sè stesso, ci ha restituita in forma di poesia un ideale che sembrava ribelle ad un'armonia personale. E l'altezza della sua sintesi ci ha dato una nuova affermazione della sua individualità, una nuova visione dell'elemento numerico dell'umanità, ed infine una fede in una possibilità di bellezza, anche ove meno poteva sperarla la nostra aspettazione. Che altro poteva raggiungere l'arte, mirando ad esprimere la concezione della democrazia?

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   Ho detto che non potevo concepir come logica una letteratura democratica, una letteratura cioè il cui contenuto non rispecchi se non una convinzione pratica dei postulati della democrazia. La massa infatti non può dí per sè avere una voce estetica, poichè manca assolutamente di personalità. Ciò che può formare materia d'arte è tutto ciò che può personalizzarsi, la natura, la patria, l'amore ed anche la scienza, cioè quanto può rispecchiarsi in un'anima sola e riflettersi nell'arte sotto la luce di un'ispirazione individuale. Ma l'artista è di per sè un essere eccezionale, e se si concede ad un soggetto che non consente eccezionalità, deve necessariamente abdicare da la sua qualità d'artista. Ora una letteratura democratica non potrebbe essere che una letteratura di convinzione: è essa possibile ed è questo forse che si chiede a l'arte? Questo si domanda al filosofo, a l'oratore, a lo statista, a í quali si cercano i sostegni della persuasione e cioè altre forme di bellezza, puramente spirituali o puramente materiali. A l'artista si chiede più tosto di mostrarci come sia convinto che non di che cosa, si chiede che ci dia le parole della sua e della nostra opinione, e non un'opinione, in somma gli si chiede un sogno e non un reale elemento di vita. Ora un ideale democratico, per essere il meno egoistico, e quindi quello che meno di qualunque altro non solo tra i politici ma tra gli ideali umani,


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presenta la possibilità di un ricambio spirituale con un'anima di poesia, manca assolutamente della possibilità di una formulazione individuale. Esso è, mi si consenta la contradizione dei termini, un ideale pratico, al quale l'artista può dare la sua facoltà di osservazione, la dolcezza della sua pietà, e forse anche lo slancio del suo entusiasmo, ma non mai la potenza della sua volontà.
   L'artista, se è veramente tale, si sente troppo diverso da la folla, per consentire di esserne soggiogato. Egli è un tiranno necessario che a sua volta soggioga ed assorbe ciò che cade nel dominio della sua ispirazione. E può permettere un'aspirazione a la bellezza, può divenire materia d'arte, essere passibile della servitù estetica, tuttociò che non vincola la libertà nello svolgimento interiore del processo creativo, ma non ciò che non avendo una forma ha però una forza. Ora il creatore deve stare di fronte a la massa per mostrare se stesso: non può immedesimarsi giammai con l'elemento medesimo a cui si rivolge la sua creazione. L'arte ed il pubblico sono due forze che non possono reciprocamente assorbirsi ma che debbono sempre rimanere distinte tra loro in un perenne stato di lotta nel quale trovano la loro ragione di essere. Ogni novità è una reazione, ogni reazione è una dominazione: se la massa impone al poeta di avere la voce della sua forza, costui non potrà che rispondere orgogliosamente con la glorificazione della propria individualità, nel più sincero contrasto con l'uniformità dell'elemento che lo circonda.
   La democrazia non è pensiero o bellezza o linea, è puro atto informe che tende a l'abolizione delle differenze. Come soggetto d'arte quindi necessariamente coercitivo, si impone a l'artista e non può subirlo. Come materia poetica, democrazia equivale a servitù poichè tocca troppo tutti i lati dell'esistenza perchè sia argomento d'ispirazione spontanea. Ed in questo modo, chi della massa subisca influsso sino a fame motivo artistico deve ineluttabilmente fare un'arte consapevole del motivo che la guida e rinunciare quindi a la libertà dell'idea, a la sincerità dell'impulso.
   Gli esempi che ho portato, delle mie recenti letture, sono, io credo, una conferma di quanto mi sono studiato di formulare. Un soffio di democrazia è passato a traverso tre grandi anime di artisti: tre individualità che avevano tra loro molti punti di contatto ma che, come questa prova ha dimostrato, avevano una diversa resistenza di personalità, un diverso concetto dei diritti della loro volontà. Nell'uno l'adozione del partito politico ha insterilito d'un tratto la feconda corrente in cui si effondeva la sua musica interiore ed ha fatto perdere il concetto artistico della dignità individuale; costui a la democrazia ha concesso tutto se stesso, sentimento e fantasia, anima e volontà, immaginazione e stile, e s'è annullato come creatore possente per risorgere come demagogo men che mediocre. Il secondo ha dedicato solo la sua pietà a la poesia degli umili e, quanto al fine sociale che s'era proposto, ha prodotto una manifestazione d'arte senza dubbio inferiore, ha dato di se un'espressione triste di decadenza, ha cantato malinconicamente ed inutilmente il contrasto eterno ed irrimediabile, trovando solo accenti di solidarietà e di commiserazione. L'ultimo non si è lasciato prendere in nulla dal nuovo argomento del suo inno, ma anzi si è affermato più orgogliosamente e più liberamente, fronte a l'idea che lo ispirava nel suo canto, quasi per dimostrare che egli sapeva dominarla come una preda, e ridurla docile e idealizzata, a le esigenze del suo sogno d'arte. Non altrimenti può glorificarsi, ne in un modo più nobile la virtù suprema della poesia, la suprema dignità dell'uomo.


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